domenica 12 gennaio 2014

Il grande buco

Quando ero bambina, uno scricciolo di quattro o cinque anni dai boccoli ramati e l'insopportabile parlantina, mio nonno mi accompagnava ogni giorno a svolgere la più affascinante e praticata attività dai pensionati di tutta Italia: osservare i lavori nei cantieri.
Mi sollevava, leggera, leggera come non sarò sicuramente mai più, io avvicinavo la faccia a uno squarcio nel telone che separava il cantiere dal resto del mondo e passavo interminabili minuti a osservare il Grande Buco.
Il Grande Buco altro non era che il cantiere del Parcheggio Toschi, nell'omonima via di Parma. Un mostro per l'epoca, non so quanti piani sotterranei, oggi ritrovo preferito di tossici, disadattati e giornalisti che hanno bisogno di parcheggiare per andare alle conferenze stampa in Comune.
Il Grande Buco è stata la cosa più grande, nera e vuota che io abbia conosciuto fino alla morte di mio nonno e oggi rappresenta, per me, quel senso di perdita colossale e inspiegabile che ti trascina nei più profondi abissi della tua anima e ti lascia giù, senza una ragione precisa, in quel fondo in cui non arriva che la luce artificiale dei doveri da portare a termine.
E io nel Grande Buco ci sono rimasta per due anni, a raccogliere i cocci di una perdita troppo grande da descrivere. Perché dovevo essere pronta, quando è arrivata, ma la morte ti coglie sempre di sorpresa come un pugno nello stomaco. L'ho rinnegata, derisa, ignorata ma era lì, in quelle tetre aule vuote di dolore.
La vigilia di Natale, per ragioni troppo intime da raccontare, la morte è tornata a sfiorarmi una spalla infreddolita con la sua scheletrica mano, a richiedere le mie attenzioni e lacerare ancora quel sottile velo funebre di cui mi ero vestita. Per la prima volta mi sono sentita sua complice, tessitrice involontaria di quel vuoto incolmabile.
Credevo di non poter più sprofondare oltre nel Grande Buco, ma non so quanti piani abbia o se ci sia una vera fine all'orrore che una mente può imporsi per smettere di sentirsi responsabile della propria vita. Avevo bisogno di un senso di futuro, di una concreta prospettiva, di tempo. Sono passate circa tre settimane e a poco a poco mi sento risalire. Non sarà una strada lineare, a un certo punto mi stancherò di arrampicarmi o avrò momenti di debolezza. Per la prima volta però sento il bisogno di impegnarmi fino in fondo per provare a uscirne.
Forse solo un vuoto può colmarne un altro.